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La scuola salvata dai bambini

Benedetta Tobagi
La scuola salvata dai bambini. Viaggio nelle classi senza confini
Rizzoli, 2016
ISBN 978-88-17-09013-1
pagg. 345, euro 18,00

Potrebbe sembrare un saggio sulla situazione della Scuola primaria in Italia. In realtà questo libro fotografa alcuni scorci molto particolari, in genere particolari perché belli, mettendo però in questo modo a fuoco anche alcune problematiche del sistema scolastico e di chi in questo sistema lavora. Non è quindi un testo pieno solo di dati e statistiche, tutt’altro: si sentono davvero parlare i personaggi, che siano bambini, maestri, genitori o a volte l’autrice stessa, che in pochi ma preziosi punti svela paure, scoperte e gioie del tutto personali e per questo del tutto condivisibili.

Un bambino ha diritto di stare nel suo quartiere, andare a scuola con i compagni con cui gioca in cortile, se no che integrazione è? (pagina 39)

Quando io e miei bambini ci siamo trasferiti dalla provincia di Brescia a quella di Venezia, la tentazione di cercare la scuola “migliore” per loro è stata forte. Alla fine io e mio marito abbiamo preso la decisione di iscriverli nella scuola più vicina, proprio per facilitare la loro integrazione. Ecco, io tutta questa smania di scegliere la scuola migliore anche a costo di allontanare i bambini dal quartiere in cui vivono non la capisco. Mi piace questa frase della maestra Arcangela, perché ribalta la prospettiva: non dovrebbero essere le famiglie ad avere il diritto di scegliere la scuola più “in”, bensì i bambini ad avere il diritto di stare nel loro quartiere.

Nei bambini migranti, perdere la lingua madre, o L1, ostacola l’apprendimento dela L2: come costruire un nuovo piano su una casa dalle fondamenta instabili. Purtroppo, parecchi insegnanti ancora raccomandano ai genitori stranieri, anche se parlano male l’italiano, di usarlo comunque a casa per comunicare con i figlio. Nonostante anni di ricerche abbiano dimostrato al di là di ogni dubbio che l’apprendimento della L2 da parte dei bamnomo trae maggior giovamento dal parlare un’altra lingua correttamente, piuttosto che dall’assorbire l’italiano pieno di errori di un genitore migrante. (pagina 48)

Quante raccomandazioni assurde facciamo ancora, noi insegnanti, completamente prive di ogni fondamento scientifico… Mi chiedo: perché? Ma non ho risposta.

La vergogna generata dal senso di inferiorità è un fardello gravoso, che può imprigionare una persona per tutta la vita. (pagina 70)

“L’identità collettiva di cui l’individuo è parte non è mai unica” ha scritto Tzvetan Todorov nel 2008, “gli esseri umani non hanno alcuna difficoltà ad assumere più identità alla volta e dunque a provare molteplici solidarietà. Questa pluralità è la regola, non l’eccezione. Ognuno, come un giocoliere, maneggia questa pluralità”. (pagina 81)

Aggiungerei che questo è ancor più vero nei bambini. Chi fatica a provare molteplici solidarietà, credo, è chi è stato costretto ad imparare questa cosa da qualche adulto triste o malato.

È molto importante valorizzare al massimo le inclinazioni e i talenti, tanto più quando il contesto è difficile. Poche cose possono motivare un bambino a impegnarsi quanto il sentirsi “bravo” in qualcosa, ottenendo il riconoscimento degli altri bambini e degli adulti di riferimento. (pagina 84)

“Sentirsi bravi” in qualcosa rafforza l’autostima, può innescare un percorso di riscatto personale. Sempre che il talento non venga contaminato instillando ai bambini un perfezionismo sterile o l’ansia da prestazione, oppure trasformandoli in scimmiette ammaestrate he deveno esibirsi per compiacere gli altri, come se solo le loro capacità, e non loro stessi, dossero degne d’amore e attenzione. (pagina 85)

Perché alcuni maestri si lasciano “toccare” al punto di rimettere in discussione il proprio lavoro sin dalle fondamenta, e altri restano impermeabili e s’induriscono? Perché Angela l’ha fatto? Quando glielo domando, allarga le braccia e sorride. “E come fai a girarti dall’altra parte?” dice. Come se non ci fosse scelta. (pagina 108)

Praticare le lingue vuol dire abituarsi all’idea che siamo tutti stranieri per qualcuno. Poche cose rendono tolleranti quanto doversi confrontare in prima persona con le difficoltà di un neoarrivato davanti ad una lingua del tutto estranea, sentirsi goffi e ridicoli perché non si riesce a produrre un certo suono. Sperimentare questa vulnerabilità è una grande scuola. “Lo straniero per me è la condizione di privilegio” dice il grande attore e regista ebreo Moni Ovadia, “solo sentendosi stranieri si può diventare esseri umani a tutto tondo”. (pagina 113)

Al bar, un cartello offre un calice di prosecco al prezzo di un cappuccino: roba da veneti, mi limito al caffè. (pagina 156)

Questa mi è piaciuta, da emigrata in Veneto qual sono, che ancora non si capacita di quanto vino riescano a bere veneti e venete a qualsiasi ora del giorno!”

Chi costruisce un muro lo fa come ostentazione di forza, ma in realtà confessa la propria impotenza. (pagina 163)

Aiutare i bambini, tutti – italiani e non – a costruire un solido senso di sè, della propria dignità e del proprio valore, per resistere agli urti del mondo di fuori, della vita, soprattutto laddove le famiglie sono composte da genitori a loro volta fragili, insicuri, ansiosi, oppure risentiti, frustrati, pieni di rancore: Roberta, Fabio e tantissimi altri insegnanti cercano di farlo, ogni giorno. (pagina 163)

Continua a girarmi in testa il finale di Io e Annie, film cult di Woody Allen del 1977: “E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete… Quella dove uno va dallo psichiara e dice: – Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina – e il dottore gli dice. – Perché non lo interna? – e quello risponde: – E poi a me le uova chi me le fa? -“.
Fare il concorso per diventare insegnante in Italia, oggi, corrisponde molto a quello che pensava allora Woody dei rapporti uomo-donna: è una cosa assolutamente irrazionale, pazza eassurda.
Ma la scuola continua perché, per fortuna, sono in tantissimi, giovani o meno, ad avere sempre e ancora bisogno di uova. (pagina 178)

Franca vede veramente i suoi bambini rom, la loro bellezza brilla nel suo sguardo amorevole. Riconosce la loro dignità, la profondità dei loro saperi, il fascino del loro retaggio, oltre la maschera sgradevole degli emarginati. I bambini hanno bisogno di essere guardati come esseri unici, preziosi, degni d’amore per poter fiorire. Se un maestro, o un genitore, è così frustrato, accecato, affaticato da vedere in loro solo dei mostriciattoli divoranti, dovrebbe essere aiutato: probabilmente, ha un bisogno disperato lui stesso di essere riconosciuto.
La luce interiore di ogni persona deve essere riconosciuta, per potersi accendere.
Conosciamo davvero la nostra bellezza solo quando la vediamo riflessa negli occhi di qualcun altro. (pagina 264)

Guardando quelle maschere, scontrose o disarmanti, ho visto le mie. Maschere involontarie, non quelle indossate come un elmo per combattere, o come un trucco di scena. Deformazioni del viso indotte dalla paura, dal desiderio di compiacere, dal bisogno di difendermi, di essere amata. Le parole dei bambini raggiungono un posto in fondo alla mia anima, dove, terrorizzata, si rannicchiava una ragazzina muta, inavvicinabile. Piango per lei dentro di me, amaramente.
Penso a quante persone ho incontrato che tengono sepolto in petto un bambino ammutolito che si nasconde negli armadi o fa capolino dietro gli stipiti delle porte, scappa e morde oppure è disperatamente sottomesso: l’ho visto balenare ogni tanto in uno sguardo, in una smorfia, per istanti brevissimi. Subito sepolto sotto una scorza di adulta efficienza, razionalità, autocontrollo, parole che minimizzano, attimi di panico o scoppi bestiali di aggressività irragionevole. (pagina 278)

Non avevo compreso davvero cosa avesse a che fare con me un autistico, uno spastico, un ritardato, né, tanto meno, cosa potesse darmi. L’ho sentito, finalmente, guardando quelle maschere. Ho capito il senzao della lunga battaglia di chi, dagli anni Settanta in poi, ha lottato per l’inclusione dei diversamente abili nelle classi. Il senso profondo che rende il lavoro con gli ultimi indispensabile, non caritatevole. È la via maestra per riconoscere quanto di loro – che siano zingari, matti o handicappati – c’è in ciascuno di noi. Ci rende più aperti e umani. Pià capaci di accogliere noi stessi e gli altri tutti interi, dunque più ricchi e generosi, più creativi, più comprensivi e capaci di vivere e di amare. (pagina 279)

Essere padroni della propria storia è un passo essenziale per diventare uomini davvero liberi. (pagina 316)